RIFLETTIAMO SULLA PASSIONE DI CRISTO. UN VOTO SPECIFICO PER I PASSIONISTI

300px-Missions-cross-steinfeld-monastery.jpgIL VOTO SPECIALE DEI PASSIONISTI:FARE MEMORIA DELLA PASSIONE DI CRISTO.

In questo estratto ricavato da “Ricerche di Storia e Spiritualità Passionista” di padre Costante Brovetto, sacerdote passionista, di venerata memoria ed uno dei massimi studiosi della  “spiritualità di San Paolo della Croce e della spiritualità passionista contenuta nel voto specifico dei passionisti” (classificato come quarto voto, ma che in realtà è il primo fondamentale voto su cui si strutturano gli altri tre classici: povertà, castità ed obbedienza) vi presentiamo i contenuti essenziali del voto specifico dei passionisti, della devozione alla Passione di Gesù e dell’impegno dei passionisti nel campo apostolico circa l’annuncio della Parola della Croce.

1.LA CONTINUA MEMORIA PERSONALE DELLA PASSIONE

«L’impegno dei religiosi per vivere la memoria della Passione di Gesù nella propria vita e nella vita comunitaria è dal voto supposto come qualcosa di preesistente». Tale impegno non discende dal voto, ma dalla stessa vocazione di fondo del Passionista. Anzi più esattamente da questo impegno nasce poi lo zelo, rafforzato dal voto, per far parte della propria esperienza spirituale a tutti i fratelli. Nella regola più antica conservata, (quella del 1736) non si parla di memoria personale della Passione nel primo fondamentale capitolo. O meglio non se ne parla in modo esplicito. Bisogna attribuire a maldestra redazione il fatto. Il Fondatore infatti dice che i religiosi debbono giungere con l’orazione alla santa unione con Dio e poi anche indirizzarvi i prossimi. Come indirizzarli? Meditando loro a viva voce la Passione! Implicitamente si suppone dunque che sia stata prima questa stessa meditazione a condurre i religiosi alla santa unione con Dio!. Esplicitamente poi, nel capitolo sull’abito, il N.S. Padre ammonisce che «l’andar vestiti di nero significa che i Fratelli di questa minima Congregazione devono fare un perpetuo lutto in memoria della SS. Passione e Morte di Gesù Cristo». Il monito ritornò poi nel capitolo sull’orazione. Singolarmente nella Regola del 1736 si tratta nello stesso capitolo della quotidiana meditazione sulla Passione, che i religiosi devono fare personalmente, e del loro obbligo di insegnarla agli altri. C’è in tutto questo il ricordo delle visioni che determinarono la fondazione. Nulla più dell’abito è adatto a indicare quanto «abituale» deve essere il pensiero della Passione nel religioso. E certamente – oltre alle ragioni pratiche – il fatto di non toglier neppure nel sonno l’abito è adattissimo a dire quanto perenne e compenetrato con la persona fosse il «perpetuo lutto» spirituale in memoria della Passione. S. Paolo della Croce non pensa ad una «devozione» aggiunta alla normale vita religiosa, ma ad uno stile che in tutte le sue componenti risente di questa «attenzione» di fede e di amore al mistero della Passione. È importante che lo si capisca per quanto riguarda la vita personale dei religiosi, perché anche in questo modo di intendere il nostro carisma il quarto voto può avere impoverito il concetto di «devozione». P. Artola nei suoi recenti studi ha abbondantemente dimostrato che le preoccupazioni giuridico-moralistiche dei revisori della Regola hanno finito per far prevalere il termine «devozione» a quello di «memoria», che molto meglio richiama l’ispirazione originaria. L’ambiguità e l’equivoco sono forse maggiori per noi che per chi viveva al tempo di S.Paolo della Croce. Allora il termine «devozione» correva molto meno il rischio di essere identificato con una semplice «pia pratica», da farsi magari in modo molto superficiale mediante formule prestabilite. Il grande S. Francesco di Sales – che può essere detto il Dottore della vera devozione e che influì moltissimo anche su S. Paolo della Croce – intendeva nient’altro, parlando di «devozione», che l’amor di Dio, «quando raggiunge un così alto grado di perfezione per cui non solamente ci induce a ben operare, ma ci fa operare diligentemente, assiduamente e prontamente» (Introduzione alla vita devota, c.1). Diremo poi in che modo possa essere intesa allora la perpetua memoria (o devozione) della Passione. Ma già si comprende che per S. Paolo della Croce la chiave di interpretazione è sempre e solo l’amor di Dio. La Passione è la porta unica per entrare nell’immensità dell’amore divino.

2.APOSTOLATO FINALIZZATO AL VANGELO DELLA PASSIONE
Qualcosa di simile dovremo dire del peso che. ha il quarto voto nell’apostolato passionista.
Nella sua accezione giuridica esso sembra che impegni semplicemente ad una predicazione «aggiuntiva». Nel suo significato sostanziale invece esprime la stessa ragion d’essere della Congregazione. In altri termini nel primo caso «promuovere la devozione alla Passione» è un mezzo in vista del fine dell’apostolato passionista; nel secondo caso è il fine stesso. Ci sono espressioni autorevoli del N.S. Padre nel primo senso. «Il mezzo efficacissimo per la conversione dei peccatori e per la santificazione delle anime è la frequente memoria della Passione…; questa povera Congregazione ha per fine di formar Operai… per piantar nei popoli la virtù e per atterrar il vizio coll’arme potentissima della detta Passione… ». Queste espressioni coincidono con quanto il Fondatore diceva nella prefazione alle Regole del 1720: «L’intenzione che Dio mi dà di questa Congregazione…; avere zelo del suo santo onore, promuovere nell’anime il santo timore di Dio procurando la distruzione del peccato, ed insomma essere indefessi nelle fatiche sante di carità, acciò il nostro caro Iddio sia da tutti amato, temuto, servito e lodato…». E ci sono anche espressioni di S. Paolo della Croce nel secondo senso. «Il nascente Istituto ha per fine primario di promuovere nei cuori dei fedeli la divota memoria della Passione SS.ma di Gesù, tanto nelle Missioni che in altri pii esercizi…». Prima si parla di «mezzo», di «arma», ora di «fine primario». L’interpretazione di queste posizioni va fatta con intelligenza. Storicamente la predicazione della Passione serviva a «commuovere» chi ascoltava, e ancor di più serviva a «rianimare» gli ascoltatori, terrorizzati dalla predicazione delle massime eterne, affinché avessero piena fiducia nella misericordia di Dio. La devozione-meditazione alla Passione aveva gli stessi scopi, e in più si sviluppava in una serie di «esempi» per coltivare le virtù cristiane sul modello di Gesù Crocifisso. Tutta una lunga tradizione spirituale aveva sempre riconosciuto alla memoria della Passione una parte importante nella cosiddetta «via purgativa» e in quella «illuminativa». In questo caso la nostra Congregazione avrebbe assunto l’impegno di scegliere, tra i tanti mezzi, appunto questo, facendolo in qualche modo diventare il primo anzi l’unico per ottenere lo scopo della conversione e del profitto spirituale. E resterebbe a parlare della «via unitiva», sia in termini di puro amore che di pura contemplazione; ma il discorso non muterebbe molto. Io ritengo che questa interpretazione sia riduttiva e che S. Paolo della Croce aveva una visione molto più alta del nostro carisma. Egli ritiene che è per se stessa che va cercata la memoria della Passione, e che essa – pur restando anche un mezzo ed un’arma nel senso detto sopra – è anche fine e si identifica col vangelo stesso di Gesù, con la santità unica genuina. Le espressioni del S. Fondatore non possono sempre rendere chiara questa posizione, ma forse noi siamo oggi in grado di capirlo meglio, sia rifacendoci alla sua fondamentale esperienza mistica sia tenendo presenti le acquisizioni della teologia più recente. Al di là delle sue espressioni, specie per quanto riguarda il metodo di apostolato, c’è la sua ferma convinzione che la Passione è mezzo «unico» di conversione e santità. Lo è non solo e non tanto per motivi psicologici contingenti (la commozione e la fiducia che la predicazione ridesta), ma per motivo dogmatico assoluto: nella Passione si svela la amorosa volontà salvifica del Padre, e il modo sicuro di «passare» a Lui. In questo senso il passionista, diremmo oggi, fa voto di lavorare alla salvezza dei fratelli in modo cristologico e teologale. C’è stato e c’è infatti, purtroppo, un modo di presentare il cristianesimo che è moralistico e teistico. In pratica identifica la vita cristiana con un’etica in parte mutuata da presupposti di tipo stoico e in parte ancorata alle leggi positive ecclesiastiche e persino civili. Ancora: il cristianesimo è ritenuto un teismo che si appoggia avanti tutto al modo razionale di attingere Dio (più o meno su basi cosmologiche), aggiungendovi poi, come rivelazione più o meno gratuita e indimostrabile, la serie dei dogmi. Il passionista deve invece pensare che per l’uomo, «immagine di Dio», salvezza è «imitare Dio». E che buona notizia è sapere che non dobbiamo inventare noi il modo di imitare Dio: è salvo chi imita Dio Crocifisso. A questo punto è ozioso parlare di mezzo e di fine. Anche secondo la scolastica se il mezzo è unico, in pratica fa tutt’uno col fine. In base poi all’intuizione fondamentale di Paolo della Croce, «essendo Gesù Dio ed Uomo», non si può e non si deve predicare Dio se non Crocifisso; non si può e non si deve parlare di «uomo salvato» se non come di uomo che porta nel suo «fondo», come propria identità profonda, il Dio Crocifisso, di cui egli è immagine. Sarà proprio questo che dobbiamo ora spiegare, per giungere alle ultime conclusioni sulla nostra spiritualità, sul nostro carisma, sull’impegno grave che abbiamo nella Chiesa, per la Chiesa e per il mondo.

3. IL CROCIFISSO «MODELLO» DIVINO DELL’UOMO
Non spaventino i vocaboli del titolo: voglio semplicemente avviare una piccola spiegazione sul modo con cui la perpetua memoria della Passione porta a scoprire l’identità profonda dell’uomo, e come porta a farsi un’idea precisa (lontana da quella «teista») di Dio. Per il primo tema abbiamo un aiuto importantissimo nelle riflessioni che, per interi decenni, S. Paolo della Croce fece e diffuse sulla «morte mistica e divina natività». Infatti la scoperta del testo originale del piccolo trattato sulla morte mistica ha ridestato l’interesse per l’argomento e si è visto quanto fecondo esso possa essere, se viene ripensato in base alla cultura attuale. Mi basti dire che dalle vicende dello scritto e da tutto il pensiero di S. Paolo della Croce appare chiaro che egli intende rivolgersi anzitutto ai religiosi, in primo luogo ai passionisti, ma anche ai semplici fedeli. Così anche in questa spiegazione porremo le basi per procedere secondo quanto abbiamo già premesso: i religiosi fanno personalmente quella stessa esperienza che poi si affaticano per diffondere anche tra gli altri.
La realtà esistenziale e dinamica, designata come morte mistica e divina natività da S. Paolo della Croce, è un «passaggio» che va capito a diversi livelli. A livello metafisico ed essenziale è il passaggio dell’uomo alla verità ultima e beatificante del proprio essere. Forse si potrebbe anche dire il passaggio dall’alienazione alla propria identità assoluta. A livello di fede è la scelta «misterica», per cui si scompare e si riappare in Cristo Crocifisso, cioè si trova nella sua Passione la propria identità assoluta. Se i due primi livelli sono per così dire «oggettivi», ce n’è poi un terzo «soggettivo». A livello esperienziale è la percezione riflessa dell’evento, a vari gradi, nell’«operare, patire, tacere». È troppo lunga una dimostrazione completa di questi asserti. Mi limito ad alcuni cenni. Quanto al livello metafisico, è ben noto che S. Paolo della Croce ebbe grande simpatia per il mistico tedesco medievale Giovanni Taulero, erede di una lunga tradizione spirituale ed egli stesso, assieme alla scuola renano fiamminga del 1300, precursore di altri illustri mistici. Questi spirituali non si accontentano di operare su un piano moralistico, affettivo, cultuale.
Vogliono raggiungere la verità ultima sull’uomo nel suo «fondo». Sanno che questo fondo non può essere raggiunto con l’esperienza, ma pensano che, in modo ineffabile, si può «passare» ad esso. Chi vive lì, ha raggiunto in qualche modo già ora il suo fine ultimo beatificante. Mettendo da parte la terminologia difficile, cosa troviamo? L’uomo sa che la sua ultima identità si trova in Dio. Vuole così trovare se stesso nella sua origine, cioè nel progetto che Dio ha fatto di lui da tutta l’eternità. E quando accetta e vuole se stesso esattamente come lo ha voluto e lo vuole Iddio da tutta l’eternità, è perfetto, pacificato, felice. È il pensiero che in mille modi continua a ripetere S. Paolo della Croce. Ma il livello metafisico non basta. Posso infatti abbandonarmi ciecamente al progetto che di me ha fatto Dio da tutta l’eternità, ma in realtà non sarò pacificato e felice se non quando so «quale» di fatto sia questo progetto. Ed ecco perché senza il livello di fede quello metafisico resta ambiguo e incompleto, anzi può dar luogo a mille arbitrii. Non per nulla dalla linea spirituale tauleriana ha potuto nascere una discendenza di «illuminati» altamente sospetti, e – poco prima di S. Paolo della Croce – di quietisti. A livello di fede infatti c’è un unico progetto divino dell’uomo: Gesù Cristo Crocifisso. «Quelli che Dio Padre ha predestinati ad essere conformi al suo Divin Figlio in gloria, li vuol prima predestinati ad essere conformi a lui in povertà e croce… Fatevi coraggio su l’accennato motivo, fondato nel detto di S. Paolo, che i predestinati alla gloria sono predestinati ad essere prima conformi a Cristo in croce…». Non si può altra antropologia che un’antropologia crucis. Il livello esperienziale sarà dunque una presa di coscienza di questa verità ultima. Io credo che in questa linea vada sviluppato il tema passionista della «perpetua memoria». Gli studi di P. Artola hanno richiamato la dimensione biblica della «memoria»; in teologia spirituale è almeno altrettanto importante quella di stampo agostiniano. In questa linea la memoria è quella specie di coscienza di sé che forma il fondo stesso della nostra identità; è l’ideale assoluto di noi stessi, che in un modo o nell’ altro per tutta la vita si cerca de realizzare per dire di essere uomini «riusciti », anche se comprendiamo che a questo ideale ci approssimeremo solamente, perché in ultima analisi è trascendente, utopico, «nascosto in Dio». L’introversione che Paolo della Croce raccomanda senza posa è appunto questa presa di coscienza profonda, più di fede che di indole psicologica. Nel fondo di se stesso ogni uomo porta scritto il progetto della croce. Più lo ritrova, più ritrova se stesso. Più lo ritrova, più vede sé come immagine di Dio. Più lo ritrova, più riesce a conoscere che quel Dio vero, di cui realizza il progetto, è il Dio Crocifisso. Ma mentre la croce si dilata così fino a identificarsi con la vita stessa dell’uomo e di Dio, essa non ha più nulla di negativo: è pura gloria e pura felicità. Naturalmente la «morte mistica» che porta à questo meraviglioso passaggio è poi concretamente identificata dal santo in tutto ciò che fa morire a se stessi, in tutto ciò che fa morire al mondo. La «beatitudine» della croce si verifica in mille modi e ciò che occorre è percepirla come tale, senza fermarsi alle cause contingenti di essa. «Sine medio». Come Cristo davanti a Pilato, il discepolo sa che nulla e nessuno avrebbe potere se non gli fosse dato «dall’alto».

4.IL CROCIFISSO «RIVELAZIONE» MASSIMA DI DIO
Per S. Paolo della Croce non ci sono più diaframmi, infatti. «Un Dio crocifisso per me!». Questa è la rivelazione suprema di Dio che egli proclama continuamente: è diventata per lui una evidenza entusiasmante ed estasiante. Pare di comprendere che la logica di questa rivelazione marcia su due binari complementari: – Gesù Crocifisso è il buon pastore che conduce le pecorelle che lo seguono fino a dove abita lui, cioè in sinu Patris; – e lì Dio è scoperto come Colui che non può volere che l’ottimo, perché ama sommamente il suo Figlio proprio donandolo al mondo come principio universale di filiazione divina dei redenti. «Oh beata quell’anima che sta crocefissa con Gesù Cristo senza saperlo e senza vederlo, perché priva di ogni conforto sensibile! Oh fortunata quell’anima che in tale abbandono d’ogni contento intus et foris, cibandosi della divina volontà china il capo e dice con Gesù: Pater, in manus tuas commendo spiritum meum e muore misticamente a tutto ciò che non è Dio, per vivere in Dio vita divina nel seno stesso del celeste Padre, tutta vestita di Gesù Cristo Crocifisso, cioè tutta unita alle sue pene, le quali l’anima amante se la fa sue, mediante l’unione di carità col sommo Bene». «L’anima vive in Dio vita deifica: Vivo ego iam non ego vivit vero in me Christus», dice ancora S. Paolo della Croce, ricollegandosi alle sue fonti di fede. La vita deifica è dunque quella crocifissa? Lo si direbbe, ed oggi siamo meglio in grado di comprendere che davvero attraverso la croce si capisce che la «kenosi», cioè l’amoroso svuotarsi di se stessi, è la caratteristica del Dio e Padre di Gesù Cristo, rivelata nel Figlio incarnato e adottata da quanti lo seguono. La perfetta morte mistica si compie infatti con «l’olocausto dello spirito». L’anima, lungamente abituata a riposare con Gesù nel beneplacito paterno, si sente come investita di tutto l’amore che dal Padre fluì nel Verbo incarnato, spingendolo alla Croce. Dimenticando ogni altra considerazione, l’anima capisce che Dio vuol essere da lei glorificato come da Colui che Egli amò più di tutto l’universo proprio mandandolo nel mondo a darsi per gli uomini. L’anima rinasce dal seno del Padre come Gesù, quasi investita di una sublime missione, prolungamento della misericordiosa incarnazione. «In quella divina solitudine che è dentro di voi, nell’essenza, nell’intimo dell’anima vostra, rinascete nel Divino Verbo a nuova vita d’amore. Dio si riposa in voi: Dio tutta vi penetra, e voi tutta in Dio, e voi tutta trasformata nel suo amore… Ah, che si perde la mia mente, e mi mancano i concetti!». Dicendo così, il N.S. Padre ci confessa ancora una volta che la realtà è più grande di quanto egli riesca a dire. Nel poderoso risveglio attuale della teologia della croce gli studiosi comprendono che nella croce ci si svela sperimentalmente quale è la vita divina del Figlio: dall’eternità e nell’eternità essa consiste tutta nel cercare non la propria gloria, ma quella del Padre. Questa specie di «kenosi eterna» a sua volta è in realtà il riflesso della vita divina del Padre in quanto Padre: questa vita consiste tutta nel non tenerla per sé ma nel donarla interamente al Figlio!. Parlare di un Dio che «soffre» può essere insensato, e certe acrobazie teologiche recenti, tutte nella linea della teologia della croce, possono riuscire poco convincenti. Ma parlare di un Dio «kenotico» trovando in questo dinamismo d’amore un principio d’intelligibilità sia della divinità trinitaria sia dell’uomo, questo si può fare assai bene. È del resto quanto in modo abbastanza trasparente sembra dire il Vaticano II. «Il Signore Gesù, quando prega il Padre perché “tutti siano una cosa sola, come io e te siamo una cosa sola”, mettendoci davanti orizzonti impervi alla ragione umana, ci ha suggerito una certa similitudine tra l’unione delle persone divine e l’unione dei figli di Dio nella verità e nella carità. Questa similitudine manifesta che l’uomo… non può ritrovare pienamente se stesso se non attraverso un dono sincero di sé». E in questo passo il Concilio rimanda, in nota, al detto- chiave evangelico, in cui è riassunta tutta la sapienza della croce: «Chi cerca di salvare la propria vita la perderà, chi invece l’avrà perduta, la salverà» (Lc 17,33).

5.LA MEMORIA DELLA CROCE DÀ ORIGINE ALL’UOMO NUOVO
Intuizione fondamentale di S. Paolo della Croce è quella dell’immensa fecondità che ha per l’uomo la memoria della Passione; egli sperimentò personalmente la trasformazione «deifica» che è possibile a chi passa per quella «porta» ed ebbe da Dio la certezza che quel transito è ugualmente aperto ad ogni uomo cui si dia modo di passarvi. Il motto di fondo della sua opera può essere: contemplare e condurre gli altri alla contemplazione. Per S. Paolo della Croce la trasformazione nella Passione conduce alla nascita d’un uomo nuovo, in Dio. Il contesto culturale entro il quale egli calò allora le sue intuizioni le recepì in modo piuttosto riduttivo, moralistico, ascetico, pietistico. Noi possiamo valerci del progresso della teologia e della pastorale odierna per proporre il Vangelo della Croce in modo fedele al suo spirito e adatto al nostro tempo. Il Fondatore sintetizzò questo «passaporto» nella povertà, tanto che all’inizio voleva chiamare i suoi figli i «Poveri di Gesù». La croce, prima che sofferenza, è spoliazione, è rifiuto di aggrapparsi gelosamente a ciò ch’è proprio, tanto più è rifiuto di dominio. Deve essere «manifesto ai popoli che i religiosi della Passione non cercano le loro entrate ma solo la loro eterna salute», dice il nostro Santo, echeggiando l’Apostolo. La parola della croce è non solo ricordata ma vissuta nel proprio «nulla sapere, nulla avere, nulla potere». Questa povertà si esprime soprattutto scartando i mezzi imponenti, ricchi, potenti, dell’apostolato, e valorizzando insieme il mezzo più povero e più sublime di tutti: l’umanità, cioè la benignità, l’amore oblativo, la solidarietà. Noi predichiamo la croce quando, con questo mezzo di aggregazione formiamo comunità cristiane «povere», cioè non fondate a loro volta su proprie sicurezze terrestri o celesti, ma solo sulla sapienza della croce, cioè sulla volontà di esistere per gli altri. Il nostro apostolato fa memoria della Passione se continuamente mantiene i fedeli in stato di «passaggio al Padre», come dovrebbe sempre essere in comunità che son coscienti del significato che ha l’Eucarestia come fattore costitutivo della Chiesa. Dobbiamo pertanto accentuare l’ecclesiologia conciliare della Chiesa «pellegrina», che accentua la sua funzione missionaria di salvezza del mondo e di anticipo del Regno, più che di tranquillo ritmo sacrale interno. «Noi andiamo pellegrini incontro alla finale perfezione della storia umana, che corrisponde in pieno col disegno del divino amore: «Ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra». Predichiamo la croce quando ammoniamo i cristiani e la Chiesa a quella «continua riforma di cui, in quanto istituzione umana e terrena ha sempre bisogno», per non compiacersi di se stessi, ma per mettersi piuttosto al servizio dei valori del regno. Si fa memoria «attiva» della croce quando – secondo la parola di Dio – si prende su di sé i fardelli degli altri. La Chiesa della croce è povera ma piena di audacia, libera, come Gesù, da ogni complesso d’inferiorità e dipendenza davanti a qualunque potere terrestre, politico, economico, culturale. La chiesa della croce è la comunità che – debole ma potente – lotta per gli ultimi del mondo. Essa non disarma anche se sperimenta che, finché dura la storia, è ancora potente il dominio del «principe di questo mondo». Essa muore misticamente due volte, dando la propria vita disinteressatamente, e ricevendo in cambio irrilevanza ed emarginazione, nella misura della sua fedeltà. Se i passionisti fanno una vera esperienza della «sapienza della croce», cioè del Dio vicino e liberatore, i fedeli possono raggiungere la loro vera forza: l’amore che sa rischiare ed è disposto a sopportare qualunque sofferenza e conflitto, pur di essere fedele alla verità e ai fratelli più deboli. La potenza della Passione vince, come lo ricordò Paolo VI a Bogotà nel 1968: «Cristo ci amò e si sacrificò: dilexit et tradidit semetipsum! Noi lo imiteremo. Ecco la croce! Dobbiamo amare fino al sacrificio della nostra persona, se vogliamo edificare una società nuova, che meriti di porsi come esempio veramente cristiana e veramente umana».

RIFLETTIAMO SULLA PASSIONE DI CRISTO. UN VOTO SPECIFICO PER I PASSIONISTIultima modifica: 2012-04-06T11:06:16+02:00da pace2005
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